di Junot Diaz,
UNO
Il 12 gennaio 2010 un terremoto ha colpito Haiti. L’epicentro del sisma, che ha registrato una magnitudo 7,0, era appena 24 chilometri dalla capitale Port-au-Prince. Quando le prime scosse sono finite, la città e gli insediamenti della periferia erano in rovina. Sono crollati ospedali, scuole, cliniche, prigioni. Le reti elettriche e di comunicazione sono implose. Il palazzo presidenziale, la cattedrale e la sede dell’assemblea nazionale – tutti simboli del patrimonio haitiano – sono stati distrutti o gravemente danneggiati. La sede centrale della missione delle Nazioni Unite era diventata un cumulo di macerie, causando la morte di peacekeeper, ccoperanti e del capo della missione, Hèdi Annabi. I dati variano, ma si stima che 220mila persone siano state uccise dal terremoto, centinaia di migliaia rimaste ferite e almeno un milione – un decimo della popolazione di Haiti – abbiano perso la casa. Secondo la Croce Rossa, sono tre milioni gli haitiani che hanno subìto le conseguenze del sisma. E’ stata la più grande catastrofe della storia moderna del paese. E’ stata a tutti gli effetti un’apocalisse.
DUE
La parola “apocalisse” viene dal greco apokàlypsis, che vuol dire “scoprire, svelare”. Come ci ricorda James Berger in After the end, il termine apocalisse ha tre significati. Prima di tutto indica una certa immagine della fine del mondo, per esempio quella evocata dal Libro della rivelazione o dai film di Hollywood. In secondo luogo, abbraccia tutte quelle catastrofi, personali o storiche, che ricordano la fine del mondo: Cernobyl, l’Olocausto, il terremoto e lo tsunami dell’11 marzo 2011 che hanno ucciso migliaia di persone in Giappone e causato gravissimi danni a una centrale nucleare a Fukushima. Infine, per apocalisse s’intende anche un evento destabilizzante che provoca una rivelazione. Per essere davvero apocalittico, spiega Berger, nel momento in cui sconvolge l’ordine delle cose un evento deve chiarire e illuminare “la vera natura di ciò che ha cessato di esistere”. Dev’essere rivelatore.
“L’apocalisse, quindi” continua Berger, “è la fine, o comunque somiglia alla fine, o la spiega”. E questo vale per le apocalissi del primo, del secondo e del terzo tipo. Il terremoto di Haiti è stato senza dubbio un’apocalisse del secondo tipo. Per chi ha perso la vita, potrebbe essere stata un’apocalisse del primo tipo. Ma a me interessa capire in che misura è stata anche un’apocalisse del terzo tipo, una rivelazione. Quello che vorrei fare, in poche parole, è scrutare tra le rovine di Haiti per descrivere cosa ha rivelato questo terremoto: su Haiti, sul nostro mondo e sul nostro futuro.
L’unico valore di una catastrofe apocalittica è che, nel momento stesso in cui distrugge ogni cosa, ci permette di vedere quegli aspetti del mondo che la nostra società cerca di ignorare, nascondendoli dietro un velo. I disastri apocalittici non si limitano a radere al suolo città e a sommergere coste. Come scrive David Brooks, “spazzano via la superficie della società, il modo radicato di fare le cose. Portano alla luce le strutture di potere nascoste, le ingiustizie, i meccanismi di corruzione e le diseguaglianze non riconosciute”. Inoltre – ed è altrettanto importante – ci permettono di capire le condizoni che hanno portato alla catastrofe, ad Haiti come in Giappone. Sono convinto che il terremoto e lo tsunami che hanno devastato Sendai finiranno per rivelarci molte cose sulla nostra irresponsabile dipendenza dall’energia nucleare e sull’inquietante collusione tra attori locali e internazionali all’origine del disastro di Fukushima.
Se, come scrive il poeta Theodor Roethke, “in un’ora buia l’occhio comincia a vedere”, l’apocalisse è l’oscurità che dà luce.
Certo, non è facile scrutare l’oscurità e decifrare le rovine. Servono perspicacia, allenamento e non poco coraggio. Ma bisogna assolutamente farlo. Nel mondo di oggi – in cui le stesse forze che ci espongono al pericolo spesso approfittano della confusione causata da eventi apocalittici per estendere il loro potere e renderci ancora più vulnerabili – diventare un decifratore di rovine non è affatto una cattiva idea. Potrebbe perfino salvarti la vita.
TRE
Cos’ha svelato, dunque, il terremoto di Haiti?
Come prima cosa, possiamo tranquillamente affermare che ha svelato Haiti.
Ad alcuni di voi sembrerà ovvio, ma se consideriamo tutti i trucchi colossali (il velo) usati per tenere gran parte dei paesi del terzo mondo (e i loro problemi) lontano dai riflettori mondiali, ecco che questa rivelazione diventa eccezionale. Per molte persone Haiti è sempre stata un puntino su una mappa, una lieve perturbazione, così distante da sembrare quasi un altro pianeta. Il terremoto per un pò ha cambiato le cose, ha strappato il velo dagli occhi del mondo e ci ha messo di fronte a quello che abbiamo visto tutti, dal vivo o in televisione: un paese disperato oltre i limiti dell’immaginabile.
Se l’uragano Katrina ha svelato il terzo mondo degli Stati Uniti, allora il terremoto di Haiti ha svelato il terzo mondo del terzo mondo. Haiti è da ogni punto di vista uno dei paesi più poveri del pianeta. Sembra incredibile, ma l’80 percento della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il 54 percento in quella che viene chiamata “miseria nera”. Due terzi della forza lavoro non hanno un impiego stabile. Chi ce l’ha guadagna in media due dollari al giorno. Parliamo di un paese dove metà della popolazione non ha accesso all’acqua pulita e il 60 per cento degli abitanti non riceve le più elementari prestazioni sanitarie, tra cui i vaccini. Dove la malnutrizione è una delle prinipali cause di morte tra i bambini e, secondo l’Unicef, il 24 percento dei bambini di cinque anni ha un ritardo di crescita.
Come si legge sul sito dell’Haiti children project, “la mancanza di cibo, di condizioni di vita igieniche, di acqua pulita, di un’assistenza sanitaria di base, unite a una diarrea epidemica, infezioni respiratorie, malaria, tubercolosi, hiv e aids, spiegano perchè Haiti ha il tasso di mortalità infantile, materno e per i bambini sotto i cinque anni più alto dell’emisfero occidentale”.
Ad Haiti la speranza di vita è di circa sessant’anni (in Canada è di ottanta).
La fame, la sovrappopolazione, lo sfruttamento eccesivo del suolo e la dipendenza dal legno come carburante hanno quasi prosciugato le risorse naturali del paese. La deforestazione ha trasformato ampie zone del territorio in paesaggi così desolati da sembrare lunari. Haiti si sta divorando. Due o tre volte all’anno mi capita di volare sopra Hispaniola, l’isola divisa tra Haiti e il mio paese, la Repubblica Dominicana. La vista lascia senza fiato. Se nel 1923 le foreste coprivano il 60 percento di Haiti, oggi quell’area si è ridotta al 2 per cento. L’incessante deforestazione ha provocato danni terribili: è al tempo stesso una causa e una conseguenza della povertà. Senza le foreste, seimila ettari di terra arabile si erodono ogni anno. Haiti è sempre più esposta alle colate di fango causate dagli uragani, che spazzano via fattorie, strade, ponti, intere comunità. Nel 2008 quattro tempeste hanno causato quasi un miliardo di dollari di danni – pari al 15 per cento del prodotto interno lordo del paese – e hanno ucciso un migliaio di persone. Quelle colate di fango sono state così grandi e i soldi per le operazioni di pulizia così pochi che oggi gran parte delle devastazioni è ancora visibile.
Oltre che con la mancanza di risorse, Haiti deve fare i conti con la sua fragilità strutturale. Le istituzioni politiche e sociali sono quasi inesistenti. Un intreccio mortale di instabilità politica, corruzione diffusa, grande povertà e saccheggio generalizzato (dalle elitè alle bande armate di narcotrafficanti) ha dissestato la società civile, spingendo quasi tutti gli haitiani in una condizione di rischio e isolamento. Anche prima del sisma, Haiti era allo stremo. Bastava un soffio per farla precipitare nel baratro.
Ecco cos’ha svelato il terremoto.
continua..