di Junot Diaz
QUATTRO
Di fronte a una calamità come il terremoto di Haiti, molti di noi adotteranno una serie di strategie evasive – distogliere lo sguardo, dare la colpa alle vittime, sostenere che si è trattato di un atto divino – pur di non affrontare quella che per il geografo è la verità assiomatica di questi eventi: “I disastri naturali non esistono“. Secondo Smith, in ogni fase e in ogni aspetto di una catastrofe la differenza tra chi vive e chi muore dipende in modo più o meno significativo da fattori sociali. I disastri, in altre parole, non si limitano a succedere. Sono sempre resi possibili da una serie di scelte sociali, spesso invisibili, che non coinvolgono solo le persone morte affogate o sepolte dalle macerie.
Per questo li chiamiamo disastri sociali.
Lo tsunami del 2004 in Asia è stato un disastro sociale. Le onde sono state così letali perchè le barriere coralline che avrebbero potuto proteggere le coste erano state fatte esplodere per facilitare il traffico marittimo. Le regioni più colpite, per esempio Nagapattinam, in India, sono quelle dove l’edilizia alberghiera e l’allevamento industriale di gamberetti avevano già devastato le foreste di magrovie, che sono la migliore difesa nel mondo contro gli tsunami.
L’uragano Katrina è stato un disastro sociale. Non solo per la spietata emarginazione economica degli afroamericani poveri e la chiara scelta di abbandonarli durante la crisi, ma anche per la decisione dell’amministrazione Bush di vendere centinaia di chilometri quadrati di terre paludose agli imprenditori immobiliari, distruggendo così le difese naturali di New Orleans. Secondo Smith, la stessa amministrazione ha tagliato “l’80 per cento del bilancio dei New Orleans corps of engineers, impedendo così che venissero potenziati gli argini e le pompe”.
Lo tsunami del 2004, l’uragano Katrina, il terremoto di Haiti: sempre la stessa storia.
Ma il caso di Haiti è esemplare. Dalle sue origini al giorno del terremoto, Haiti ha ricevuto molte spinte sulla strada verso la rovina. La rete di responsabilità, dietro la sua discesa nel disastro, si estende nel tempo e nello spazio.
Quando Haiti era una colonia francese, la sua popolazione nera fu gonfiata oltre i limiti sopportabili del territorio, e questo ostacolò qualunque tipo di progresso materiale. Prima e unica nazione ad abolire la tratta degli schiavi, fu sottoposta a un blocco navale (quindi ulteriormente impoverita) dalle potenze occidentali (grazie, Thomas Jefferson). Fu riammessa sulla scena mondiale solo dopo aver pagato un indennizzo a tutti i bianchi che avevano perso i loro averi durante la rivoluzione haitiana, indenizzo per il quale dovette chiedere un prestito alle banche francesi, ritrovandosi imprigionata in una spirale del debito da cui non è mai uscita. Cronicamente indebitata, Haiti era quindi esposta alle incursioni capitaliste straniere: prima arrivarono i francesi, poi i tedeschi e infine gli Stati Uniti, che occuparono il paese dal 1915 al 1934, insediando un presidente fantoccio e imponendo una nuova costituzione che favoriva gli investimenti esteri. In quel periodo i funzionari statunitensi dirottarono il 40 per cento delle entrate dello stato haitiano per ripagare i debiti con la Francia e gli Stati Uniti. Intanto cominciava la sfilza di despoti che avrebbero trascinato il paese ancora più in giù, spesso spalleggiati da potenze straniere. È il caso di Francois “Papa Doc” Duvalier, sostenuto da Washington per la sua politica anticomunista. L’embargo impoembrsto dalle Nazioni Unite nel 1994 fece crollare la forza lavoro nelle fabbirche da più di 100mila persone a 17mila. L’embargo fu tolto lo stesso anno, e contemporaneamente il paese ricevette un regalo avvelenato dal Fondo monetario internazionale, che mise fine alle tariffe protezioniste trasformando Haiti nella nazione caraibica con meno restrizioni commerciali e spalancando la porta a un fiume di riso sovvenzionato dagli Stati Uniti. Tutto questo accellerò il crollo del settore agricolo locale e fece piombare il paese un tempo autosufficiente nella dipendenza dal riso straniero, rendendolo vulnerabile ai rincari dei beni alimentari a livello mondiale. Durante l’embrago decine di migliaia di persone persero il lavoro nell’industria manifatturiera. L’invasione del riso importato cacciò centinaia di migliaia di haitiani dai loro campo. Molti si spostarono verso le città, finendo nelle periferie e nelle baraccopoli in espansione, cioè nelle zone che poi sono state colpite più duramente dal terremoto
CINQUE
Il terremoto ha svelato il nostro mondo anche in altri modi. Se considerate attentamente quest’apocalisse, vi accorgeret che il problema di Haiti non è il fatto di essere un paese povero e vulnerabile. Il suo problema è che è un paese povero e vulnerabile in una fase dell’esperimento capitalista in cui il divario tra chi ha e chi non ha non solo è grande, ma si sta rapidamente allargando. La spaventosa vulnerabilità di Haiti, quindi, dev’essere collocata all’interno del più ampio fenomeno della crescente disuguaglianza globale.
Viviamo nell’era dell’integrazione economica neo-liberale, della globalizzazione, quel magico processo che avrebbe dovuto liberare dalla miseria i poveri di tutto il mondo e regalare agli altri una prosperità mai vista prima. Naturalmente la globalizzazione non ha fatto nulla del genere. Ci avevano detto che “l’alta marea solleva tutte le barche”, ma basta una rapida occhiata ad alcune statistiche per notare che l’ondata della globalizzazione ha la cattiva abitudine di favorire gli yacht rispetto alle zattere. Secondo la Banca mondiale, nel 1960 il pil pro capite dei venti paesi più ricchi era diciotto volte più grande di quello dei venti paesi più poveri. Nel 1995 era 37 volte più grande.
Come spiega il sociologo Jan Nederveen Pieterse, in questa fase di follia neoliberale “i paesi meno sviluppati rimangono sempre più indietro e ovunque cresce il numero dei poveri, mentre, all’altro estremo, la ricchezza dei ricchissimi aumenta vertiginosamente”. Se i ricchi si stessero arricchendo perchè sono molto più in gamba di noi, sarebbe un conto. Sembra però che i ricchi sis stiano arricchendo anche perchè spremono i poveri e, sempre di più, la classe media. E questo accade in tutto il mondo: dal punto più basso del mercato – per esempio Haiti, dove il pil pro capite è passato da 2.100 dollari nel 1980 a 1.045 nel 2009 – a quello più alto. Negli Stati Uniti, i più poveri si sono arricchiti molto meno dei ricchi. Tra il 1993 e il 2008, l’1 per cento più ricco della popolazione ha intascato il 52 per cento della crescita del reddito. In sostanza un gruppetto di avidi sta divorando le risosrse del pianeta, mentre a noi – ovvero a miliardi di persone – non restano nemmeno le briciole. Eppure, nonostante queste macroscopiche disparità, i cosiddetti powers that be, le autorità costituite, insistono che il mondo ha bisogno – reggetevi forte – di libertà economica e politiche favorevoli al libero mercato. Quindi di più diseguaglianze!
Pieterse descrive bene questa fase economica: “Nell’insieme, le disparità tra i redditi e tra le ricchezze sono ormai così grandi da essere diventate grottesche. Le disparità tra le risorse finanziarie delle persone a livello globale sono così profonde da non avere precedenti storici nè giustificazioni possibili, economiche, morali o di altro genere”.
Ecco perchè Haiti è al tempo stesso una vittima e un simbolo di questa nuova, vorace fase del capitalismo. Una fase cannibale in cui, per rafforzare la crescita esponenziale dei ricchissimi e degli ultraricchi, le classi medie sono costrette a fallire, le classe lavoratrici vengoni riproletarizzate e i poveri sono spinti oltre gli spaventosi limiti della sussistenza, in una specie di semivita sepolcrale, bersagli perfetti del primo “disastro naturale” che capiti dalle loro parti. Non è una semplice coincidenza storica se la stessa isola dove sono nate le piantagioni, punto di partenza del percorso che ci ha portati fino a questa tappa del progetto capitalista, è anche il primo paese ad averci messo in guardia: il capitalismo è diventato uno zombi, che attraverso l’alchimia economica trasforma intere nazioni in creature nè vive nè morte. Un tempo lo zombi era un essere che per vie soprannaturali perdeva il controllo sulla sua vita e le sue azioni. Gli zombi del passato erano condannati a un’attività senza tregua. Lo zombi di oggi non è più in grado di fare nulla: aspetta solo di morire.
E il terremoto ha svelato anche questo.
SEI
Non riesco a pensare all’apocalisse di Haiti senza chiedermi: dove stiamo andando? Dove ci stanno portando i meccanismi e le forze che abbiamo messo in moto e che hanno reso la distruzione di Haiti non solo possibile, ma inevitabile? Verso quale fine, quale futuro, quale destino?
La risposta, per me, è al tempo stesso ovvia e agghiacciante. Quando avremo finito di saccheggiare le risorse del nostro pianeta, avremo fatto estinguere qualche altro migliaio di specie, prosciugato le falde acquifere, avvelenato tutto quello che potevamo avvelenare e intensificato il riscaldamento climatico, che eliminerà le calotte polari sommergendo le nostre coste, quando le nostre operazioni di mercato avranno finito di dividere il mondo tra ultraricchi e quasi morti, quando i miliardi di affamati lasciati indietro dai nostri sistemi economici avranno ripulito la biosfera spinti dal loro insaziabile bisogno, ci ritroveremo in un mondo di miseria e desolazione, un futuro uscito da un delirio fantascientifico in cui i ricchissimi vivranno in piantagioni fortificate con i loro intollerabili privilegi e noi altri sprofonderemo nella disperazione più estrema, barcollando tra i rifiuti, travolti da centinaia di migliaia di “disastri naturali” o “atti divini”.
Non è forse questa la logica conclusione delle nostre azioni? L’intero pianeta trasformato in Haiti? Perchè Haiti non è solo la vittima più visibile della nostra civiltà. Haiti è anche il segno di quello che verrà.
E il terremoto ha svelato anche questo.