“Container 158”: uno sguardo sulla segregazione dei rom nelle periferie italiane
Pubblicato su Yalla Italia
Il nuovo documentario prodotto da Zalab ci porta nella squallida periferia romana, e precisamente nel campo rom di Salone, zona La Rustica, caso esemplare di “terzo mondo a casa nostra”. Ne parla in questi termini Stefano Liberti, giornalista del Manifesto e saggista esperto di Africa e movimenti migratori, presentando il nuovo lavoro (realizzato con Enrico Parenti, patrocinato da Amnesty International Italia, Associazione 21 luglio, Consiglio d’Europa e sostenuto dalla Open society foundation) presso il circolo fotografico WSP di Roma, nell’ambito della serie “Gli occhi sulla città”. Far sì che proprio gli occhi di noi che viviamo in Italia – Paese ancora considerato ad alto reddito e, nonostante tutto, umanamente sviluppato – si rivolgano ai pesanti circoli viziosi di esclusione sociale e povertà relativa che caratterizzano le nostre città: questo uno degli obiettivi (pienamente raggiunti) da “Container 158”.
Immergersi nel nulla, provare a raccontarlo. Dar conto di una situazione che il cittadino medio ostinatamente ignora. Accendere i riflettori sulla realtà tutta italiana dei campi rom attrezzati e finanziati con fondi pubblici. Gli autori stessi, dopo la realizzazione di un primo corto di 8 minuti che abbozzava i tratti fondamentali della problematica, per realizzare il documentario hanno scelto di immergersi totalmente in questo mondo, trasferendosi all’interno del campo, ospitati in uno dei tanti container che, posizionati a distanza di giusto due metri l’uno dall’altro, fanno da casa ai rom di Salone.
A Roma la politica nei confronti di questa popolazione, o almeno di quella piccola percentuale di essa che non vive in case normali come tutti noi altri, è stata fin dal 1994 quella di escluderla, isolarla, deportarla e/o delocalizzarla verso periferie sempre più lontane. Intanto le istituzioni internazionali accusano l’Italia di porre in atto politiche segregazioniste, ma nessun sindaco della Capitale finora si è mai azzardato a iniziare percorsi positivi di reale integrazione delle comunità rom, perché le politiche di inclusione in termini di voti semplicemente non pagano.
“C’è una trasversalità incredibile sui rom” afferma Liberti, perché gli italiani non vogliono vedere gli “zingari”, preferiscono sprecare tre milioni e mezzo delle loro tasse per innalzare muri, pagare inutili sorveglianti, e urlare poi al ladro quando persone come queste – fuori da ogni tessuto sociale – ricorrono al furto e all’illegalità per sopravvivere. Non c’è distinzione di colore politico: il campo di Salone è stato infatti progettato dall’amministrazione Rutelli, costruito da quella Veltroni, e infine “sovraffollato” da quella Alemanno, che ha sgomberato vari insediamenti informali (come l’immenso Casilino 900) trasferendo i cittadini rom in agglomerati recintati come quello oggetto del film, che con circa milleduecento persone è il più grande d’Europa.
La situazione persiste sotto il sindaco Marino, e non c’è cenno di alcuna inversione di rotta. Si costruisce un posto così, lontano più di tre chilometri dal tessuto urbano, lo si recinta <<e poi ti dicono: “Integrati, integrati cazzo!”…. Con chi mi devo integrare, con gli alberi?>>. Le risate di Giuseppe sono amare; un po’ ci scherza e un po’ sfoga la sua rabbia, lui che lì dentro stava impazzendo e alla fine è stato uno dei pochi che dal campo sono riusciti a emanciparsi, costruendosi, seppur al limite dell’irregolarità, una vita più decente.
Molti altri restano intrappolati, presi dalla “sindrome da campo”, un po’ perché – proprio come tanti italiani – preferiscono lamentarsi del fatto che lo Stato non fa niente per aiutarli, e un po’ perché ciò che sta “fuori” fa paura. Lo testimoniano bambini nati e cresciuti nel nostro Paese, che a malapena parlano la nostra lingua e che vedono i gagè, gli italiani stessi, come minacciosi. Anche per questi motivi non è facile uscire fuori e affrontare in maniera costruttiva la realtà italiana. D’altronde è difficile trovare una comunità più odiata e rifiutata di quella – pur multiforme – dei rom – che, tra l’altro, al loro interno e nei campi, si dividono in base alla provenienza e si sopportano ben poco (un esempio sono le relazioni difficili tra rumeni e montenegrini).
Va ricordato che laddove la tanto invocata ”integrazione” si era avverata, come ad esempio a Testaccio fino al 2008, soprattutto in termini di scambi quotidiani e frequenza scolastica, le seconde generazioni erano in prima fila nel processo di fusione totale con il quartiere e con la sua gente. Proprio in quel contesto sono intervenuti i succitati sgomberi, sradicando i rom lì stabilitisi da anni al fine di spostarli nel campo di Castel Romano, sulla via Pontina, al di fuori del GRA – in barba ad ogni good practice politico-amministrativa.
Altra questione che ritorna nei fotogrammi di “Container 158” è quella dell’identità stessa dei rom, e soprattutto dei ragazzi, che non sanno assolutamente chi sono, e collegano la loro appartenenza etnica, di tentativo in tentativo, alla permanenza nei campi, al parlare la lingua romaní, o all’essere senza documenti. Una delle cause/conseguenze dell’esclusione sociale è infatti l’apolidia che caratterizza diversi abitanti del campo, stretti tra il non riconoscimento dei loro paesi d’origine – che spesso all’epoca della loro emigrazione erano ancora parte della ex Jugoslavia – e le complicazioni burocratiche dello ius sanguinis italiano.
Lavorare in maniera seria per risolvere un problema sociale, invece di far finta – come fanno le istituzioni italiane – che non esista o che lo si possa affrontare così, in attesa che s’ingrandisca fino a scoppiare. A invertire la rotta ci provano quotidianamente tanti operatori del Terzo settore, come gli insegnanti di italiano L2 della Rete Scuole Migranti, che a volte si spingono fino dentro i campi per proseguire i loro laboratori di lingua. È quello che fa ancor più questo film, a partire dalla sua missione fondamentale di sradicamento dei pregiudizi duri a morire, quando ci mostra come ciò che sappiamo sui rom altro non è che, come direbbero gli economisti, una serie di “aspettative autorealizzantesi”, un circolo vizioso che la governance di un Paese del “Primo mondo” dovrebbe preoccuparsi di interrompere.
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