Ho visto il futuro, e si chiama impresa sociale

Pubblicato su I Mille

Tra profit e non profit: cooperative e nuove frontiere dell’economia collaborativa

“C’è crisi!”, la disoccupazione giovanile è a livelli spaventosi, e nessuno dei soggetti classici, cioè Stato e imprese private, sembra esser capace di fornire soluzioni concrete in termini di investimenti e creazione di posti di lavoro. Viviamo in un Paese bloccato dalla paura, eppure – come ricordava qualche tempo fa Riccardo Bonacina in un editoriale su Vita – c’è così tanto da fare e da cambiare.[1]

Al disastro sociale seguito a quello economico, bisogna rispondere, possibilmente, in maniere nuove e con strumenti freschi. La via da più parti intravista e sempre più sperimentata è quella dell’impresa sociale: una soggettività capace di umanizzare l’economia di mercato e, insieme, di dare uno statuto riconoscibile alla vocazione anche produttiva del non profit. In Italia se ne parla da anni, ma l’istituzionalizzazione e, più in generale, l’affermazione di tale modello su grande scala sono state frenate da un quadro legale e fiscale ancora scadente. La legge n.155 del 2006 andrebbe superata, poiché si è limitata a distribuire una qualifica assai poco appetibile, invece di creare una vera nuova figura giuridica. Tra l’altro, in sette anni ha prodotto meno di 800 soggetti, catalizzando così solo in piccolissima parte quella ben più vasta propensione all’imprenditorialità sociale evidenziata dal recente Censimento Istat.[2]

L’esigenza di riforma è confermata dalle pressioni provenienti dall’Unione Europea, che ora persegue il social business come motore di occupazione e contrasto alla crisi. A fine 2013 sono stati resi noti il provvedimento in materia di fondi europei per l’imprenditoria sociale (Regolamento UE n. 346/2013), che mira a definire un quadro comune riguardo all’utilizzo della denominazione EuSef per i gestori di organismi di investimento collettivo, e il Social Impact Accellerator, un fondo di fondi che sta mobilitando un importo iniziale di 60 milioni di euro per investimenti in impact fund.[3] Si tratterà quindi di cogliere le occasioni che si presentano sia sul fronte del social business che per quanto riguarda tutti gli strumenti finanziari che stanno emergendo in supporto a tale mercato.

Tornando ai cambiamenti del quadro legislativo nazionale che urge apportare, seguendo i ben più avanzati modelli francese e statunitense, bisognerà metter mano a: modelli di governance, inclusione lavorativa, leve fiscali, redistribuzione degli utili e settori intervento.[4] In questa sede ci si concentra sul secondo punto, cioè le imprese sociali di inserimento lavorativo, che esistono in tutt’Europa, e che in Italia assumono prevalentemente la forma di cooperative sociali di tipo B.

Queste cooperative possono svolgere qualsiasi tipo di attività, ma devono necessariamente impiegare una percentuale di soggetti ritenuti svantaggiati; secondo la norma si tratta di invalidi fisici, psichici e sensoriali, ex-degenti di istituti psichiatrici, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione. La realtà dimostra però che le coop sociali di tipo B accolgono sempre più diverse tipologie di svantaggio, andando ben oltre quelle previste dalla normativa: donne sole con figli a carico, extracomunitari, persone che, dopo una certa età, perdono il lavoro, ecc. – senza che ciò sia riconosciuto ufficialmente o, comunque, senza particolari incentivi.

Oramai le fasce deboli da includere tra gli “svantaggiati” sono lievitate, e lo Stato ha iniziato a riconoscerlo con il decreto del ministero del Lavoro del 20 marzo 2013, il quale ha sancito che “chi non ha un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi” può essere considerato lavoratore svantaggiato. Tradotto in pratica: qualsiasi persona che abbia difficoltà ad entrare, senza assistenza, nel mondo del lavoro; per esempio, qualsiasi giovane di meno di 25 anni o che abbia completato la formazione a tempo pieno da più di due anni e che non abbia ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente.

Uno dei (pochi) punti positivi dell’ultima legge di stabilità è lo scampato pericolo per le cooperative sociali: il governo ha infatti impegnato 130 milioni per evitare a queste imprese il previsto aumento dell’IVA dal 4 al 10%. Una tegola che avrebbe messo in serio pericolo 43mila posti di lavoro e mezzo milione di assistiti.[5] Non si parla però solo del mondo socio-assistenziale; il campo dell’impresa sociale va allargato all’agricoltura, alla bioedilizia, al commercio equo e solidale e, più in generale, all’economia a chilometro zero.

Tra gli esempi di successo evidenziati da Vita c’è la coop sociale Agricoltura Capodarco di Grottaferrata, membro del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) e da qualche anno in crescita sotto il profilo commerciale. Infatti, insieme all’attività di reinserimento (10 dei 34 soci sono svantaggiati) attraverso la produzione agricola e le attività didattiche e ricreative, ha avviato un piano di vendita, somministrazione e commercializzazione dei prodotti che sta dando ottimi risultati. Il business plan ha previsto l’apertura di un agriturismo da 220 posti, la vendita diretta al mercato di Grottaferrata e al sistema dei Gas, ma soprattutto la distribuzione dei prodotti biologici presso i negozi Equo e solidale e a molte mense scolastiche romane, attraverso la società partecipata Biosolidale srl, il cui fatturato nel 2010 ha toccato quota 2,7 milioni.

Un concetto che si affianca e a volte interseca quello di imprenditoria sociale è la sharing economy, o economia collaborativa. Tale etichetta mette insieme due poli ormai allontanati da 0ltre due secoli di capitalismo orientato al consumismo: quello dell’economia – che fa pensare al profitto – e quello della condivisione – che tira il carretto più verso la gratuità.  Tra questi due estremi si sta giocando una partita capace, se non di ribaltare, quanto meno di scompaginare un po’ le carte dell’assetto economico futuro.[6]

Partendo dal riconoscere che il capitale sociale,cioè la ricchezza di una società, si concretizza nella fiducia reciproca, si può osservare come ci siano tanti modi per inquadrare questa realtà “di frontiera”, qualcosa che all’uomo comune sembra intangibile ed evanescente, ma che invece gioca un ruolo fondamentale nella tenuta di agglomerati complessi quali sono le città – e anche gli agglomerati urbani in provincia – nella nostra epoca.

In concreto, se si pone alla base il concetto di condivisione di risorse – beni, ma anche servizi e competenze – inutilizzate o, meglio, non messe a valore, ecco che si ha un’idea più precisa. Nell’era dei social network, il luogo privilegiato dove consentire l’agevolazione dell’incontro di domanda e offerta è ovviamente il web, cioè piattaforme quali collaboriamo.org e simili.  Esempi ancor più pregnanti sono Couchsurfing e AirBnB, colossi americani ultranoti e molto utilizzati anche dal pubblico italiano. Il Wall Street Journal ha quasi stigmatizzato lo sharing come una realtà marginale, cioè un mercato di nicchia per tutti quei beni e servizi che diventano economici se ci si unisce per usarli. Ebbene, bisogna avere business model solidi, e lo si vede proprio nel caso di AirBnB – arrivato nel 2013 a fatturare un miliardo di dollari – che ciò può significare una fee tra il 6 al 15% su ogni transazione.[7]

Si sta creando un modello per molti versi alternativo a quello delle grandi multinazionali, ma è chiaro che non si può incorrere nell’errore di considerare ancora il denaro “sterco del diavolo”, perché è dai profitti che passa la sostenibilità finanziaria, anche quella delle “cose belle”. Si sta aprendo un terreno molto fertile per chi ha nel proprio dna costitutivo la messa a valore dello scambio, della condivisione, del lavoro in rete. Il mondo della cooperazione gioca infatti  un ruolo da protagonista, perché singoli e imprese profit stanno recuperando il valore della mutualità, e la sfida quindi è piuttosto quindi quella di cavalcare l’innovazione.

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