Dopo tre anni dallo spiazzante “A line of deathless kings” (comunque un bell’album) tornano Andrew e Aaron, con una formazione ancora una volta rinnovata. Ritorna il violino, con un approccio però minimale e abbastanza in secondo (terzo) piano rispetto a quello che tale strumento rappresentava nel primo periodo della band. Prendo atto del fatto (e si notava già tre anni fa) che Aaron non je la fa più a grugnire come ai bei tempi, e quando “gli tocca” si rifugia in uno pseudo-screaming maligno dal sapore black, anzi diciamo che su canzoni come queste “gli sarebbe toccato” molto piu spesso, nel senso che la violenza e l’incedere cavernoso a livello strumentale non manca, ma il singer preferisce quasi sempre cantare, quasi sempre usando il suo timbro evocativo e gli spoken-word. I momenti migliori e più innovativi rispetto anche al precedente album li ho trovati proprio dove l’ermetico poeta si mette a cantare davvero, su tonalità un pò più alte e con un pò più di fiato, vedi l’opener “My body, a funeral” o la stupenda “Santuario di sangue”.
Per il resto, duole dirlo, l’album si mantiene su livelli medio-alti, con le grandi e “movimentate” “Death triumphant” e “Bring me victory”, mentre da un gruppo come loro ci si aspetta sempre capolavori. Sarà che mi manca tanto la componente “pesante” di quei gioelli neri usciti nella prima parte di questo decennio (“The dreadful hours” e “Songs of darkness, words of light”), per non parlare del marciume gothic-death e la vena innovativa degli anni ’90.
p.s.
Li amo, sempre e comunque, la loro musica rimane sempre qualcosa di unico, un mondo in cui rifugiarsi e rigenerarsi