APOCALISSE (3)

di Junot Diaz

SETTE
Se c’è una cosa di cui sono certo è che abbiamo bisogno delle rivelazioni portate dalle nostre apocalissi, oggi più che mai. Se non capiamo questo, come possiamo sperare di assumerci la responsabilità delle pratiche sociali all’origine di ogni catastrofe? E come possiamo sperare di assumerci la responsabilità della risposta collettiva necessaria per alleviare tutte queste sofferenze?
Come possiamo sperare di cambiare?
Visto che dobbiamo cambiare, dobbiamo anche resistere alla tentazione di distogliere lo sguardo quando ci troviamo di fronte a una catastrofe. Dobbiamo respingere i vecchi discorsi che ci spingono a interpretare i disastri sociali come fossero disastri naturali. Dobbiamo rifiutare i soliti copioni con le vittime e i soccorritori, che dirigono tutte le nostre energie sulla carità invece che sul cambiamento del sistema. Dobbiamo rifiutare i provvedimenti di ripresa che puntano solo a dividere ancora di più i popoli e i paesi che pretendono di aiutare. E dobbiamo, in ogni circostanza e con tutte le nostre forze, opporci al tentativo, da parte di quelli che hanno contribuito a questi disastri, di sfruttare il coas per rafforzare la loro presa sul nostro futuro.
Dobbiamo fissare le rovine – con coraggio e fermezza – e dobbiamo vedere.
E poi dobbiamo agire.
Ne va della nostra vita.
Cosa succederà? Riusciremo davvero, nonostante i nostri limiti e le nostre crudeltà, a fissare le rovine e a sfuggire alla discesa nell’apocalisse?
Sinceramente, non sono molto ottimista. Avete visto come siamo messi? No, non sono ottimista, ma non per questo ho smesso di sperare. Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico. Vengo dal New Jersey. Come disse uno scrittore di queste parti, “sono vasto, contengo moltitudini”.
Già, spero ancora. Noi umani siamo irritabili, pieni di difetti e spesso diabolici. Eppure, nonostante tutte le nostre debolezze, siamo anche capaci di grandi gesti. Pensate agli haitiani e alla loro leggendaria capacità di spportazione ispirata a Dio. Pensate a come sono riusciti a sopravvivere a tutto quello che il mondo gli ha riservato, dalla schiavitù a Sarah Palin, che ha visitato l’isola a dicembre. Pensate alla sovrumana solidarietà dimostrata dagli haitiani nelle settimane dopo il terremoto. Pensate al fiume di sostegno arrivato dagli haitiani di tutto il mondo. Pensate anche ai miei connazionali, i dominicani,. Nella storia moderna pochi popoli caraibici sono stati altrettanto ostili verso gli haitiani. Certo, siamo vicini, ma che vicini! Nel 1937 il dittatore Rafael Trujillo lanciò una campagna di genocidio contro gli haitiani e gli haitiani dominicani. Decine di migliaia di persone furono massacrate. Altre decine di migliaia furono ferite e si rifugiarono ad Haiti. Da allora i rapporti tra i due paesi sono sempre stati tesi. Per come la vedo io, la società dominicana di oggi è profondamente antihaitiana. Nel mio paese gli immigrati haitiani sono vittime di una diffusa discriminazione, di condizioni di lavoro terribili, di vessazioni continue, violenze di massa e espulsioni sommarie senza nessun processo.
Nessuno, e intendo davvero nessuno, si aspettava nulla dai dominicani dopo il terremoto. E invece sapete cos’è successo? I soccorritori dominicani sono stati i primi ad arrivare ad Haiti, poche ore dopo il sisma. Nei primi, cruciali giorni dell’emergenza, mentre la comunità internazionale si stava coordinando, i dominicano hanno portato ad Haiti risorse vitali che per migliaia di persone hanno fatto la differenza tra la vita e la morte.
Con un incredibile ribaltamento di decenni di velenosa inimicizia, è stato come se l’intera società dominicana si fosse mobilitata per aiutare Haiti. Gli ospedali dominicani sono stati svuotati per fare posto ai feriti. Gli interventi chirurgici non urgenti sono stati cancellati per mesi (provate a immaginare se l’avessero fatto gli Stati Uniti anche solo per un mese, che differenza avrebbe fatto). Scuole più o meno esclusive e di diverso orientamento politico hanno organizzato invii di aiuti e singoli cittadini hanno trasportato nelle loro macchine beni di prima necessità e lavoratori, anceh quando le organizzazioni internazionali sostenevano che le strade di Port-au-Prince erano impraticabili. Il governo dominicano ha mandato generatori e cucine portatili, e ha allestito un ospedale da campo. La Croce rossa dominicana è intervenuta molto prima di chiunque altro. Le comunità dominicane di New York, Boston, Providence e Miami hanno spedito provviste e soldi. Trujillo dev’essersi rivoltato nella tomba di fronte a questa svolta epocale. Sonia Marmolejos, una donna dominicana di origini modeste, ha lasciato i figli ancora piccoli a casa per andare ad allattare oltre venti neonati haitiani le cui madri erano state uccise o gravemente ferite.
Pensate a Sonia Marmolejos e capirete perchè, nonostante tutto, continuo a sperare.

OTTO
“Sono tempi bui, inutile negarlo”. Così parla il personaggio interpretato da Bill Nighy nel penultimo episodio della saga di Harry Potter. A volte bisogna cercare la verità nello spettacolo. Come a volte bisogna cercare la speranza tra le macerie.
È passato più di un anno da quando il terremoto ha sconvolto Haiti e, concretamente, poco è cambiato. Port-au-Prince è ancora in rovina, le macerie non sono state rimosse, il porto rimane paralizzato. Più di un milione di persone vivono ancora nelle tendopoli, esposte alle intemperie, alle malattie e alle bande criminali, e nulla lascia pensare che presto potranno trasferirsi altrove. La ricostruzione ha assicurato palate di soldi alle aziende statunitensi e quasi nulla agli appaltatori e agli operai haitiani. Il colera si sta diffondendo nei campi per sfollati: secondo le Nazioni Unite, le vittime finora sono 4.500. nel dicembre 2010 il medico e antropologo Paul Farmer ha reso noto che a quasi un anno dal disastro Haiti aveva ricevuto solo il 38 per cento degli aiuti promessi (732,5 milioni di dollari), a parte i debiti cancellati. Nella Repubblica Dominicana, le minacce di violenza hanno spinto migliaia di immigrati haitiani ad abbandonare la zona di Santiago poche settimane prima dell’anniversario del terremoto.
Oggi, più di un anno dopo, possiamo dire che il mondo ha voltato le spalle. Non ha saputo imparare la lezione dell’apocalisse di Haiti.
Niente paura, però, perchè una cosa è certa: ci saranno altre Haiti. Qualche nuova catastrofe colpirà il nostro povero pianeta. E per un pò la nostra incostante capacità di attenzione cadrà su questa nuova tragedia. Altre mani si torceranno, circoleranno altre storie ingannevoli, altre persone moriranno.
Chi di noi è davvero impegnato darà tutto l’aiuto possibile, ma la maggior parte distoglierà lo sguardo. Alcuni, però, si faranno forza e scruteranno le macerie, alla ricerca della verità di cui tutti, prima o poi, avremo bisogno.
Le apocalissi come il terremoto di Haiti non sono solo catastrofi. Sono anche opportunità: occasioni per vederci, per assumere le responsabilità di quello che vediamo, per cambiare. Un giorno, da qualche parte nel mondo, succederà qualcosa di terribile e per una volta non distoglieremo lo sguardo. Non cederemo a quello che Jane Anna e Lewis R. Gordon, nel loro saggio Of divine Warning, descrivono come lo strano momento successivo a una catastrofe, quando “nel nostro rifiuto di vedere nei disastri dei segni” non vogliamo “interpretare e assumerci la responsabilità delle risposte collettive necessarie per alleviare la sofferenza degli esseri umani”.
Un giorno, da qualche parte nel mondo, succederà qualcosa di terribile, e per una volta fisseremo le rovine. Cominceremo tutti insieme ad assumerci la responsabilità del mondo che stiamo creando. Vi sembrerò un ingenuo utopista, ma credo che tutto questo accadrà. Sul serio. Mi chiedo solo quanti milioni di persone moriranno nel frattempo.

POST SCRIPTUM
15 marzo 2011: mentre rileggo questo articolo, guardo le immagini sconvolgenti che arrivano dal Giappone colpito dal terremoto e dallo tsunami. Un’altra apocalisse oltre i limiti dell’immaginabile, solo che questa volta potrebbe toccarci tutti. Il notiziario spiega che una terza esplosione ha scosso la centrale nucleare di Fukushima e che potrebbe essere scoppiato un incendio nel quarto reattore. È il peggiore incidente nucleare dopo Cernobyl, spiega un signore ben pettinato. Anche se i noccioli dei reattori nucleari non dovessero fondere, le fuoriuscite radioattive nell’ambiente continueranno per settimane, forse mesi. Alcuni amici a Tokyo raccontano che i miei amati negozi di alimentari sono stati svuotati e che le radiazioni forse hanno già raggiunto la città. Per concludere, ecco la dichiarazione dell’Autorità per la sicurezza nucleare statunitense (Nrc): “Le rigorose norme di sicurezza adottate dall’Nrc permettono agli impianti nucleari degli Stati Uniti di resistere a tsunami, terremoti e altri pericoli”. Sentendosi chiedere maggiori dettagli, il portavoce dell’Nrc avrebbe risposto che l’autorità per ora non risponde alle domande dei giornalisti.

tratto da INTERNAZIONALE

Junot Dìaz è uno scrittore dominicano naturalizzato statunitense. Il suo ultimo libro è La breve favolosa vita di Oscar Wao (Mondadori 2009). Questo articolo è uscito sulla Boston Review con il titolo Apocalypse.

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