Recensione di “CINA. Il drago rampante” di Renata Pisu
Il popoloso impero asiatico si presenta a noi, italiani e occidentali, come un groviglio di complessità alquanto difficile da districare, tanto nel peso della sua tradizione quanto nel dispiegarsi della suo presente denso di sfide.
Tanta è l’ignoranza qui da noi e tanti gli stereotipi, sui cinesi come popolo e sul “dragone” come mostro divoratore e dominatore dell’economia mondiale.
Il saggio di Renata Pisu fornisce un’introduzione decisamente efficace a chi voglia iniziare a farsi un’idea di quali siano i fondamenti della cultura cinese, andando al cuore delle questioni più importanti della storia e dell’attualità di questo mondo a tanti ancora sconosciuto pur nei suoi tratti essenziali.
Tali questioni ci interessano tutti, direttamente o indirettamente, in quanto cittadini di un mondo sempre più interconnesso, nel quale forse solo con la diffusione e lo scambio della conoscenza si può far fronte alla crisi di civiltà che pervade la nostra società, ponendoci sullo stesso piano di quel miliardo (quasi) e mezzo di persone che in fondo non vive una fase tanto differente dalla nostra.
La Pisu, grande giornalista e conoscitrice della lingua cinese, ha vissuto da vicino molti dei passaggi epocali che hanno scandito gli ultimi decenni della Repubblica Popolare Cinese, e restituisce in questo libro – che pare quasi una raccolta di articoli – una visione globale di tutto ciò che della Cina suscita curiosità.
C’è spazio per l’indagine sull’oscuro decennio della Rivoluzione Culturale e sugli orrori del totalitarismo maoista, e tanti sono i dubbi riguardo il peso della dottrina marxista-leninista non solo nell’impostare lo stile di governo (che ancora si dice comunista – ma c’è da dire che la discussione sulla credibilità di tale definizione appare quasi marginale e irrilevante) piuttosto che nel plasmare l’organizzazione generale della società cinese.
Ci sono tutti i risvolti del Confucianesimo, tante volte rinnegato e tante volte recuperato, per spiegare le perduranti differenze e, soprattutto, l’autonomia del Regno di Mezzo (中国, Zhong Guo, il nome con cui i cinesi chiamano il loro Paese) rispetto all’Occidente e a tutti prodotti ideologici e culturali che esso ha tentato nei secoli di imporgli. Ciò che ha fatto davvero breccia è il consumismo, con tutte le sue conseguenze in termini di sviluppo squilibrato e tutt’altro che “armonico” (come invece vorrebbero le élite cinesi, sin dalle cruciali riforme di fine anni ’70 operate da Deng Xiaoping).
La lotta per una modernità che, causa il millenario orgoglio, si vorrebbe “con caratteristiche cinesi” è il comun denominatore della storia novecentesca e non solo. Tale anelito e tutte le contraddizioni scaturitene si riflettono nella letteratura e nelle arti, e non si intravede alcuna credibile soluzione all’orizzonte.
Il miraggio del “sol dell’avvenire” socialista, con tutti i suoi immani sacrifici e fallimenti, è stato un incubo che sembra aver lasciato dietro di sé solo un’impalcatura dittatoriale (per quanto apparentemente solida) e tanto, tanto disincanto, specialmente nelle generazioni dei nostri coetanei, corrosi dal cinismo, da un paradossale individualismo e dediti, nel migliore dei casi, alla ricerca interiore, cercando rifugio dalla “mancanza di verità” che dalla tragedia del 4 giugno 1989 – la repressione del Movimento di Piazza Tian An Men – stenta ancora a cedere la sua presa sul pensiero dominante.
C’è bisogno tanto della demografia e della geografia quanto della filosofia e delle religioni per descrivere un mondo, un continente, un insieme di nazioni che per la maggior parte dei suoi decantati 5.000 anni di storia è rimasto largamente indifferente all’esterno, considerandosi “la civiltà” e in questo secondo decennio del XXI secolo usa il nazionalismo per ridefinire un suo ruolo geopolitico come grande potenza, non solo a livello asiatico.
Non bisogna infatti dimenticare che la Cina è un caso unico nella storia, essendo passata in pochi decenni, dopo l’emancipazione dal giogo coloniale, dall’essere uno dei paesi più poveri fino al rango di seconda (e a breve prima) economia del globo, portando nel frattempo fuori dalla povertà centinaia e centinaia di milioni di persone.
Precisamente per questo motivo, alla Cina ora guardano con crescente interesse sempre più paesi in via di sviluppo, come ad un modello alternativo a quello imposto con superbia dall’Occidente* e cominciano pian piano a dare frutti sia il lavoro iniziato negli anni ’80 sulla crescita del soft power che la graduale “apertura al mondo” dell’era post-maoista.
C’è da spaventarsi? Forse. In base a molti dei punti di vista riportati in questo libro, pubblicato nel 2007, il futuro potrebbe portare sorprese sgradite, sia per noi che per i cinesi. È bene quindi cercare di saperne e capirne il più possibile, e leggere “Il dragone rampante” è un buon inizio.
Questa recensione è uscita anche su Yalla Italia e su I mille.
P.S.
A chi comprende bene l’inglese consiglio un paio d’approfondimenti:
– Dambisa Moyo: Is China the new idol for emerging economies?
Keeep onn writing, great job!