Tra gli scrittori che popolano la bookshelf di casa a Gaeta ho trovato e trovo spesso alcuni dei miei migliori amici. Il tempo che passo con loro, e l’attenzione che vi dedico eguaglia e spesso supera in dignità quella per tante delle relazioni sociali del vivere quotidiano – di cui pur tocca aver cura, ahimè.
L’americano-palestinese Edward Said è un po’ come una di quelle persone di spessore che mi è capitato per fortuna di incontrare una-due volte nel corso della vita, e di cui prima e dopo ho sentito spesso rievocare il nome. Per la precisione, questo libro, nella traduzione italiana di Stefano Galli – l’ho comprato nel 2009, all’incirca un anno prima dell‘esperienza in Medio Oriente. Per tanto tempo ho rifiutato di leggerlo per davvero – limitandomi a qualche sbirciatina qua e là – e innumerevoli volte l’ho sentito citare. Le citazioni del “celebre” o “fondamentale” testo di Said escono fuori naturalmente ogni volta che si parli del conflitto israelo-palestinese, così come ogni volta che nel commentare l’attualità di guerre varie si torna a blaterare di “scontro di civiltà”. Per quanto mi riguarda più curioso ancora è stato il rimando al famoso intellettuale palestinese, con tanto di riconoscimento di spessore culturale, da parte di un prof. di sociologia israeliano (Michael Feige, della Ben Gurion University of the Negev, la stessa di Benny Morris) durante una delle lezioni che ci tenne sulle divisioni etniche interne alla società sionista.
Ma, bando alle digressioni, a volerne dare un giudizio sintetico, tenterei così:
Classico saggio anti-colonialista degli anni settanta che, seppur in maniera a tratti ripetitiva, espone platealmente la mistificante impalcatura che ha contraddistinto per secoli la politica e la cultura europee (precipuamente inglesi e francesi) nei confronti di tutto ciò che – in particolare l’islam – si trovasse a Est di Sé.
p.s.
La mistificazione ovviamente continua, e le news di questi giorni testimoniano che tale impalcatura è ancora saldamente in piedi. Tuttavia i tempi cambiano; le differenze e le diffidenze – nonostante tutto – si affievoliscono. Limitandoci a un media di massa come la televisione, è possibile apprezzare come i ragazzi africani preferiscano guardare la CCTV (di base anche a Nairobi, seppure in lingua inglese), mentre tanti occidentali autocritici hanno accesso facile a Russia Today o Al Jazeera.
Ancor più però, colpisce la diffusione in Asia di mappe del mondo che non hanno più al centro l’Europa, ma di nuovo (come è stato per millenni) il Regno di Mezzo, cioè la Cina, il cui Oriente è… l’America.
P.S.
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