AMARTYA SEN: Economista, filosofo e decano dello sviluppo umano

Il lavoro dell’autorevole premio Nobel è stato costantemente caratterizzato dal concetto di sviluppo come libertà individuale

di Simon Reid-Henry per The Guardian

Traduzione a cura di Andrea Lisi

Nel 1990 è venuto alla luce un insieme di idee raggruppabili sotto il concetto di sviluppo umano. Si tratta di una corrente di pensiero che non ha paura di dichiararsi universalista quanto ai principi fondamentali , partendo dal concetto che tutti abbiamo bisogno di vivere una “vita buona”. Inoltre non si è disposti a rinunciare alla convinzione che abbiamo tutti ugualmente diritto a godere di questo tipo di cose. Di conseguenza, questo punto di vista considera nell’uomo le potenzialità, e non le privazioni, quali suoi punti di partenza nell’affrontare i problemi della povertà e della disuguaglianza a livello globale.

Ciò pone sotto vari aspetti il pensiero legato allo sviluppo umano agli antipodi rispetto alle idee post-sviluppiste. Laddove Arturo Escobar e altri pensatori post- e anti-sviluppo hanno incolpato l’ideologia in sé dello sviluppo per i problemi legati alla povertà, la teoria dello sviluppo umano punta l’indice contro la nostra incapacità di pensare in maniera abbastanza ampia: dobbiamo immaginare e creare un modo di organizzare il mondo che funzioni per tutti, e non solo per pochi.

Questo non vuol dire si sia giunti ​​al punto di equilibrio ottimale, che si sia trovato un approccio che contenga il giusto mix di pragmatismo e di speranza, o che (la teoria dell sviluppo umano ndt) sia semplicemente il modo giusto per mescolare assieme stato e mercato. Come dovrebbe ormai essere chiaro, non esiste una sola panacea per i problemi e le insidie ​​dello sviluppo. Allo stesso modo, lo sviluppo umano non è forse troppo lontano dal rappresentare una via di mezzo praticabile, almeno potenzialmente; e l’economista indiano Amartya Sen è certamente colui che incarna le idee dello sviluppo umano meglio di chiunque altro. Nella sua vita, Sen ha avuto un’enorme influenza a livello intellettuale, mentre la longevità della sua carriera e la qualità dei suoi contributi riguardo un ampio spettro di questioni – dalla choice theory in economia ai discorsi filosofici sul concetto stesso di giustizia – hanno condotto tali argomenti ben al di là dell’ambito dello sviluppo economico.

Nato nel Bengala nel 1933, Sen ha trascorso la maggior parte della sua vita lavorativa presso istituzioni nel Regno Unito e negli Stati Uniti. È un economista di formazione, ma armato dello scetticismo di un filosofo verso quelle che riteniamo essere verità intoccabili. Anche se premiato con il Nobel per l’economia, ha scelto di non “consultarsi” con i governi per trovare sostegno per le sue idee. Come egli stesso sottolinea nelle Stuart Corbridge Notes per la London School of Economics, si tratta di una questione di orgoglio: “Non ho mai rivolto le mie indicazioni a nessun governo, preferendo rendere i miei suggerimenti e le mie critiche – per quello che valgono – di pubblico dominio”.

Di queste riflessioni la più nota è forse quella che deriva dal lavoro di Sen sulle carestie. Egli sostiene che le carestie sono raramente il risultato della mancanza di cibo. Molto più spesso esse sono la conseguenza di una crisi nella capacità delle persone di accedere o produrre cibo nel modo da loro solitamente usato – e quindi esse sono il risultato di fallimenti politici, non naturali. Ma sia che egli scriva riguardo le carestie – essendo stato a lungo tormentato dal ricordo della grande carestia del 1943 nel Bengala – o a proposito dei più arcani calcoli della social choice theory, ciò che Sen ha costantemente a cuore nel suo lavoro è l’idea di libertà.

Il suo pensiero è ben riassunto nel libro Lo sviluppo è libertà, pubblicato nel 1999:  testo fondamentale in ogni corso sullo sviluppo, ma certamente scritto avendo in mente un pubblico ben più ampio. Sen sostiene qui che l’espansione delle libertà è centrale per innescare lo sviluppo – “sia come fine primario che come mezzo principale”. Sen ha insistito nel concettualizzare lo sviluppo come libertà in questo modo al fine di rendere l’obiettivo più ampio rispetto, ad esempio, alla semplice misurazione numerica del PIL, oltre a porre le condizioni affinché si porti avanti questa idea in maniera sistematica, assicurandosi che si realizzi.

Tra queste due istanze, la seconda appare come di più ampia portata, poiché richiede che si pensi la povertà non solo come un’aberrazione, come qualcosa che potremmo in qualche modo risolvere. Si tratta piuttosto di riconoscere che “i nostri privilegi si trovano sulla stessa mappa dell’altrui sofferenza”, come sottolinea Susan Sontag. Il problema dello sviluppo risiede tanto in ciò che noi classifichiamo come ricchezza quanto nel come fare per promuoverla senza creare nuova povertà.

Riconoscere che lo sviluppo rappresenta un insieme più ampio di libertà rispetto a quanto ci dice il PIL può aiutarci anche a causa di un paradosso che Sen espresse a metà degli anni ‘80 nelle sue Tanner lectures: “Potresti essere felice, senza avere molta libertà. Potresti avere una buona dose di libertà, senza raggiungere grandi risultati”.  La libertà, quindi, non è di per sé separabile dalla capacità o volontà degli individui di usarla per un particolare fine. Di conseguenza, lo sviluppo diventa non tanto procurare quello che manca alle persone (quella che potremmo chiamare modernizzazione), quanto piuttosto rimuovere gli ostacoli alla libertà che impediscono alle persone di vivere nel modo che desiderano: le disuguaglianze di mercato, o la violenza di Stato, ad esempio.

Le argomentazioni di Sen derivano dall’impegno nella promozione delle libertà individuali. Non si trova nel suo lavoro l’annacquato relativismo che ha contagiato molti nel mondo accademico durante gli anni ‘90. Ma non troviamo in lui neanche l’individualismo sfrenato tipico degli intellettuali di destra. Ciò significa che bisognare essere cauti nel classificare Sen. Egli non sostiene tanto che la massima libertà individuale sia necessariamente portatrice dei massimi benefici, bensì postula una libertà reale, attiva, spesso anche chiamata “capacità”: libertà di avere opportunità concrete e non solo diritti teorici.

Egli sfida infatti a riflettere sul valore pratico di libertà politiche che sono solo sulla carta, mentre nella realtà viene impedito alle persone di goderne a causa di vari limiti (unfreedoms), quali la malnutrizione, la discriminazione etnica o sociale, o anche una maggiore esposizione al rischio epidemiologico e ai pericoli naturali. Questa opinione non è ancora stata pienamente accolta dai politici e dagli addetti ai lavori, più preoccupati di affrontare i bisogni percepiti e l’orizzonte politico a breve termine.

In parte ciò è dovuto al fatto che Sen ha scelto di non propagandare il suo pensiero dall’alto della poltrona in pelle della presidenza della Banca Mondiale. Se ci si riflette si capisce subito perché ovviamente non avrebbe mai potuto farlo. Ma nonostante tutto ciò che Sen ha ricusato di sussurrare all’orecchio dei singoli governi, egli ha comunque indirizzato e plasmato in modo significativo il lavoro di organismi internazionali quali l’Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite.

Basta semplicemente dare un’occhiata agli obiettivi di sviluppo del millennio (OSM o MDG) per rendersene conto. La libertà è uno dei valori-guida degli MDG e, a tal fine, Sen ha dato all’idea di libertà un modernissimo taglio descrittivo. Ma egli è anche consapevole che la sfida del conciliare la libertà con la produttività economica è presente sin dagli albori della filosofia politica dell’Illuminismo. Per tale motivo, non ha avuto paura di produrre una nuova e più precisa interpretazione delle idee di Adam Smith sulla teoria dei sentimenti morali, nonostante il lavoro di Smith sia ai nostri giorni solitamente considerato, da parte della sinistra quanto della destra, come poco più di un manifesto pubblicitario pro-mercato.

Questa saggezza intellettuale è centrale nelle opere di Sen. Dato che quello dello sviluppo è un ambito pieno di peso politico, per non parlare dell’imperativo etico da esso rappresentato, non riusciremo mai a risolvere tale sfida fondamentale a meno di non esser disposti a fare molto di più di questo campo. E come Sen ha chiarito, risolvere la sfida dello sviluppo sta diventando sempre di più, non meno, importante in un mondo diviso tra l’avanzare della globalizzazione e il defilarsi della destrezza di giudizio in politica.

P.S.

Tra quelli tradotti in italiano, ti consiglio anche questi altri libri di Amartya Sen:

 

 

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