Secondo appuntamento con i concetti fondamentali dello sviluppo sostenibile, come delineati da Jeffrey Sachs della Columbia University of New York.
Tra i cardini fondamentali di una società giusta vi è l’inclusione sociale, poiché è anche in base a come la ricchezza e le opportunità sono distribuite che giudichiamo il livello effettivo di sviluppo di un paese.
Guardare alle differenze di PIL pro capite tra paesi non basta; spesso ci sono infatti grandi disparità nelle condizioni di vita all’interno di uno Stato. Forse quella che più salta all’occhio è ancora la differenza tra città e campagna.
Prima della Rivoluzione industriale, circa il 90 per cento della popolazione mondiale viveva in zone rurali, guadagnandosi da vivere con un’agricoltura di fondamentalmente di sussistenza. Al giorno d’oggi, invece, il fenomeno dell’urbanizzazione ha generato e genera crescenti disuguaglianze.

In generale, il reddito pro capite tende a essere sempre più alto nelle aree urbane, il che incoraggia flussi migratori dalle campagne (è questo un pattern comune, ma non universale – come testimoniano tante storie di “ritorno alla terra” nell’Italia di questo decennio). Questa dicotomia tende – con lo svilupparsi di un paese – a rispecchiarsi in quella tra zone interne e zone costiere o rivierasche, laddove quest’ultime offrono incomparabili opportunità di commercio.
Assieme ai redditi, nelle aree urbane crescono anche i servizi pubblici, e parallelamente diminuisce il numero dei figli per famiglia, dato che cade il loro utilizzo attivo come lavoratori nei campi e piuttosto aumenta il loro tasso d’istruzione.
Un dato storico e di attualità che va dunque riconosciuto è che, generalmente, le zone del pianeta più ricche sono quelle urbanizzate. Tuttavia, è proprio l’area più rurale e povera del mondo – l’Africa Sub-sahariana – a registrare negli ultimi anni i tassi di urbanizzazione più alti.
Un altro dato demografico importante è la prevista stabilità della popolazione rurale – che si manterrà sui 3,3, miliardi fino al 2035, diminuendo leggermente a 3,2 attorno al 2050 – e dunque il fatto che tutto l’aumento della popolazione mondiale in questa prima parte di secolo avverrà all’interno delle città. Altrettanto forte è però l’insicurezza sulla dinamica dei redditi e degli standard di vita.
L’indicatore principe che ci dice quanta disuguaglianza c’è in un paese o area geografica è il coefficiente di Gini. In un ottica di sviluppo sostenibile e socialmente inclusivo, il paradigma solitamente immaginato è quello dell’Europa settentrionale, con particolare riferimento ai paesi scandinavi, i quali hanno nel secondo Novecento seguito politiche economiche che li han resi “ricchi e socialmente equi”.

Dunque, Jeffrey Sachs fa solitamente riferimento alla Svezia come un luogo in cui c’è uguaglianza, poiché ai figli di famiglie povere viene dato supporto finanziario per assicurarsi che anche i loro bambini abbiano buone possibilità di successo nella vita. Questo archetipo prefigura dunque la creazione di un’ampia classe media, cioè quello che i paesi occidentali hanno sperimentato dopo la seconda guerra mondiale e che negli ultimi anni stanno vedendo progressivamente affievolire.

Un altro punto fondamentale per capire la disuguaglianza nel mondo è il modo in cui definiamo il benessere. A tal riguardo, si stanno generalmente affermando indicatori diversi, che non si limitando al solo calcolo del reddito pro capite. Riflettendoci su, infatti, sembra ovvio che tutti cerchiamo nella vita qualcosa in più dei soldi, delle cose, dei possedimenti materiali. Da un punto di vista oggettivo, l’Indice di Sviluppo Umano coniato dall’UNDP, basandosi su misure di reddito, istruzione e salute, rende bene il livello di sviluppo di un paese*. Non va sottovalutata però la dimensione soggettiva del benessere, quella che alcuni chiamano felicità. Secondo psicologi ed altri esperti questa può essere concepita in senso affettivo o emozionale, quando si pongono domande tipo “come è andata la tua giornata ieri?”, “hai sorriso?”; oppure si parla di felicità valutativa quando si chiede “nel complesso, sei soddisfatto della tua vita?” e si cerca una valutazione più omnicomprensiva del senso di soddisfazione. In tal senso, ci sono effettivamente sorprese nelle classifiche dei paesi, laddove molti dei più ricchi non figurano molto in alto (ma molti dei più poveri sono saldamente in basso). Non stupisce che le persone in tutto il mondo in genere danno a tal proposito un’importanza cruciale al reddito. Altrettanto importanti risultano però l’ambiente e la qualità della vita in comunità (capitale sociale), così come la salute mentale. Da ultimo, gli esseri umani considerano spesso decisivi i valori, e da ciò risulta che chi ha un forte orientamento in senso materialistico e individualista tende ad essere meno soddisfatto nella vita rispetto a chi coltiva maggiormente generosità e spiritualità.
Una dei quesiti che maggiormente ci si pone nell’economia dello sviluppo è se gli odierni paesi poveri hanno la possibilità di restringere il divario nel reddito pro capite e in altri indicatori di benessere con i paesi più ricchi. La convergenza è uno scenario fattibile? Storicamente, la prima fase della crescita economica mondiale – grosso modo dal 1750 al 1950 – è stata caratterizzata soprattutto dalla divergenza (dopo millenni in cui la crescita economica era rimasta vicina allo zero, e così le disuguaglianze tra popoli), mentre dal 1950 si è aperta una fase di convergenza.
Un esempio recente di transizione largamente di successo è quello della Cina post-maoista, che dal 1978 iniziò a registrare tassi di crescita mai visti nella storia e a portare fuori dalla povertà centinaia di milioni di persone. Un caso limite di paese bloccato nella trappola della povertà e che addirittura tende a peggiorare è invece il Niger, terra desertica senza sbocchi sul mare ancora tra le più misere al mondo.
I processi che possono guidare una nazione fuori da tale trappola non sono ancora del tutto chiari e tra politici ed economisti non c’è ancora chiarezza, se non su parole blande come “crescita inclusiva” da porsi come obiettivi. Concretamente, il cammino delle “tigri asiatiche” (ad esempio Corea del Sud e Taiwan) negli anni 60-70 è stato caratterizzato da scelte coraggiose nel campo dell’istruzione, e soprattutto da sacrifici e specializzazione produttiva tesa a sfruttare la montante globalizzazione dei mercati. Tuttora il dibattito sulle migliori politiche economiche resta aperto. Per saperne di più, ti invito a leggere il mio libro: “OLTRE GLI OBIETTIVI DEL MILLENNIO” che approfondisce la storia e le novità più rilevanti nella lotta alla povertà.
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*Negli ultimi anni nello sviluppo umano ha sempre primeggiato la Norvegia, anche se forse l’attuale drammatico calo del prezzo del petrolio potrà avere conseguenze serie sulla sua economia.
p.s.
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3 thoughts on “Un mondo diseguale”